E la Libia? Mentre altre piazze e altri Paesi sono al centro dell’attenzione e della cronaca, parte da Udine la mail indirizzata al presidente del Consiglio Letta e ai ministri Bonino e Zanonato: «Le aziende italiane sono state lasciate sole dopo la guerra. In un momento nel quale in Italia il lavoro è fermo, questo significa rischiare il fallimento».
Gianni De Cecco è il titolare della Friulana Bitumi International, Srl che nel 2008 aveva costituito una filiale operativa ad Al Bayda, regione settentrionale, e subito dopo una joint venture con un’impresa locale, la Public Work company, di proprietà della Hib, una delle società statali che gestivano i fondi per la realizzazione di edifici e infrastrutture.
«Lavoramo in Libia prima dello scoppio della crisi (15/02/2011) e ora cerchiamo di continuare a farlo, anche se la mancanza di risorse ci sta mettendo in serie difficoltà. Altre 100 aziende che operavano in quel Paese prima della Primavera Araba sono in estrema difficoltà, alcune sono già fallite, per la mancata liquidazione dei crediti maturati per lavori e progettazioni eseguite prima e dopo la rivoluzione. Sono trascorsi più di due anni e dopo un’infinità di mail inviate a vari ministri, all’Ambasciatore Melani, all’Ambasciata a Tripoli ho deciso di scrivere al Governo perché purtroppo l’aiuto che speravamo di avere dalle istituzioni italiane non ha dato i risultati sperati. Come si può immaginare le piccole e medie imprese se si presentano da sole alle Autorità libiche non vengono ascoltate e, quindi, difficilmente riusciranno ad ottenere quello che gli spetta».
Che cosa potrebbero fare le istituzioni? «Sono due anni – dice De Cecco, nuovamente in partenza per Tripoli – che mi batto perché le Istituzioni ci assistano per ottenere i pagamenti dei crediti maturati, che consentirebbero di superare questo grave periodo di crisi. Quando mi sono reso conto che le promesse non portavano ad alcun risultato, sono stato costretto a incaricare dei professionisti libici per cercare di raggiungere quel risultato che mi permetterebbe di non continuare a mandare a casa i collaboratori della Friulana Bitumi International Srl e dell’IN.AR.CO. Srl, di cui sono contitolare, che ha collaborato con la prima all’elaborazione delle progettazioni in Libia. Nel periodo in cui lavoravo in Libia, la Friulana Bitumi aveva, tra l’Italia e la Libia, più di 50 tra dipendenti e collaboratori oltre all’indotto, l’IN.AR.CO. più di 60. Ora siamo rimasti poco più di una decina e se non ci pagheranno, dovremo gettare la spugna e chiudere l’attività».
Il ruolo dell’Italia. «Leggo sulla stampa italiana – scrive nella mail De Cecco – che il presidente Obama ha sottolineato l’"importanza del ruolo dell’Italia per la stabilità della Libia". Ritengo che un grande contributo alla stabilità lo diano anche quelli come me, e pochi altri, che si avventurano in Libia in questo periodo per cercare di continuare l’attività che avevano rischiando in proprio e senza alcuna assistenza. Mi chiedo perché il Governo italiano non conclude con quello libico un accordo per farci pagare direttamente con i crediti che accumula giornalmente o con i fondi accantonati con il Trattato di amicizia (250 milioni l’anno). I Governi precedenti potevano farlo quando hanno scongelato i fondi libici senza porre alcuna condizione: più di 8 miliardi a fronte di 600 milioni (da verificare) dovuti alle aziende italiane. Purtroppo anche le risposte alle interpellanze al Consiglio d’Europa, che davano la possibilità ai Ministeri italiani di liquidare i crediti delle imprese con i fondi congelati, sono state disattese».
Le aziende coinvolte. Tutte le aziende italiane nella stessa situazione sono negli elenchi del MAE (ministero Affari esteri) e del MISE (ministero Sviluppo economico). «Solo con un interessamento diretto con le autorità libiche potremo arrivare ad una definizione in tempi brevi. Questo significherebbe per il nostro Paese posti di lavoro, possibilità di lavoro all’estero, sviluppo, crescita, e un contributo alla stabilità della Libia. Noi ci siamo fino a quando riusciremo a resistere, diversamente dalle imprese di tanti Paesi stranieri che sono assistite dalle banche e dalle istituzioni». Perché chi operava in Libia non si era assicurato con la Sace? «Delle 132 aziende (fonte ICE) presenti in Libia prima della Primavera Araba, solo due si sono assicurate. Questo anche in considerazione dei trattati che erano stati stipulati tra il Governo italiano e libico», risponde De Cecco. A gennaio dell’anno scorso, l’allora sottosegretario De Mistura aveva impegnato il Governo a risolvere la questione dei crediti maturati, «ma non se ne è saputo più nulla, così come della consegna prima tramite Camera di commercio italo-libica, poi direttamente ai ministeri competenti, della documentazione delle imprese coinvolte, che chiedevano – almeno – la certificazione dei crediti e la sospensione delle imposte». Era il febbraio 2012.