Questo è il secondo capitolo del progetto iniziato qui: chiunque può aggiungersi, e partecipare. Questo è il link al romanzo che si va componendo, un capitolo alla volta.
di Gianni De Cecco
Sono un ingegnere civile libero professionista con 36 anni di lavoro alle spalle. Da qualche mese sono andato “anagraficamente” in pensione, ma con lo spirito continuo a portare avanti la mia attività. Sì, purtroppo solo con lo spirito! Tutto ciò che avevo costruito in 36 anni di attività è stato rovinato in poco tempo.
Vorrei raccontare la mia esperienza a partire dal 2006: la società d’ingegneria che avevo fondato nel 1990 aveva circa 40 collaboratori fissi. Capii che per noi sarebbe cominciato un periodo difficile, coinciso con l’inizio della crisi economica.
Conscio della difficile situazione italiana, decisi di prendere la “valigia di cartone” per cercare lavoro all’estero.
Ricevetti la telefonata di un imprenditore friulano, nonché amico, che operava in Guinea Equatoriale. Stava realizzando gli interventi preparatori per la costruzione della nuova capitale immersa nella foresta vergine: Oyala. Avevo una scarsa conoscenza delle lingue straniere, fatta eccezione per il friulano, ma decisi che questo non mi avrebbe fermato per il malessere che provavo, per quello che stava accadendo in Italia (liberalizzazioni senza regole, gare al massimo ribasso) e il presagio di anni difficili.
Nel 2007, a metà luglio, venni informato che l’aereo su cui viaggiava il mio amico imprenditore, era caduto causandone la morte. La mia esperienza in Guinea Equatoriale terminava prematuramente. Nei mesi precedenti, tuttavia, avevo conosciuto Renzo, un imprenditore veronese che operava in Libia e che mi offrì l’opportunità di collaborare con lui per seguire dei lavori in quel Paese. Nonostante la mia società d’ingegneria fosse una delle più importanti della mia regione, il Friuli Venezia Giulia, per operare all’estero aveva bisogno di affiancarsi a imprese di costruzioni. Parlai con un impresario friulano che si rese disponibile a condividere l’opportunità e partii per la Libia.
All’inizio del 2008, l’impresario, Renzo, un imprenditore libico di Tripoli ed io costituimmo una società a responsabilità limitata che si proponeva di operare con una branch in Libia. Nel febbraio dello stesso anno, dopo mesi di incontri e contatti, la nostra società e una impresa statale Libica di Al Bayda (Montagne Verdi) costituirono una Joint venture.
Nel luglio 2008 l’HIB (Housing & Infrastructure Board , il ministero delle Infrastrutture libico) affidò alla Joint venture un contratto dell’importo di 433.500.000 lyd (circa 250 milioni di euro) per la progettazione e costruzione di 3mila unità abitative e 86.000 metri quadrati di edifici pubblici. Il contratto riguardava una porzione della nuova città di Sidi Al Hamri che si sarebbe edificata sulle Montagne Verdi, a sud di Al Bayda, e che doveva ospitare circa 70mila abitanti (circa 12mila unità abitative). L’area che doveva accoglierla era adibita a pascolo.
In qualità di socio progettista, all’interno della nostra Società, iniziai l’elaborazione del masterplan sulla base dei rilievi dell’area di oltre 900 ettari. Quando presentai al Ministero libico le prime proposte, la JV fu incaricata della progettazione di tutta la nuova città: dalle infrastrutture agli edifici residenziali e pubblici. Nell’ottobre 2008 la nostra branch venne inoltre incaricata di progettare ed eseguire 180 ettari di infrastrutture della città di Cirene e successivamente di progettare 930 ettari di infrastrutture a Tobruk. Il progetto della nuova città prendeva corpo: nel marzo 2009 fu approvato il masterplan dell’intera città e i modelli degli edifici condominiali (tre modelli) e delle case unifamiliari (quattro modelli).
Sfortunatamente in marzo Renzo morì, l’impresario decise di ritirarsi e alla fine del 2009 mi trovai da solo a fare il progettista costretto, per cause di forza maggiore, a fare anche il costruttore. Alla fine di aprile, su disposizione di Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, le autorità libiche decisero che tutte le progettazioni che si sviluppavano sulle Montagne Verdi dovevano seguire la Dichiarazione di Cirene, e cioè i principi di sviluppo sostenibile; tutela archeologica; eco-turismo; energie rinnovabili; progettazione urbanistica ambientalmente responsabile; ecc. Questa decisione comportò lo stravolgimento totale del progetto che era appena stato approvato. Il controllo e la supervisione furono affidati dalla HIB a diverse società: AECOM americana, ECOU libica e ALGURG di Abu Dhabi.
Inizialmente l’aver a che fare con tante società straniere mi intimorì un po’, ma dopo i primi incontri compresi che le realtà professionali italiane hanno capacità e preparazione come poche nel mondo.
Purtroppo tutto questo bagaglio e know how sta svanendo a causa della crisi e del mancato sostegno delle istituzioni alla nostra causa.
ln agosto 2009 la Commissione di controllo si riunì a Udine e approvò il nuovo masterplan della città di Sidi Al Hamri. In maggio 2010 si iniziò lo sbancamento delle strade principali della città e si avvio la realizzazione delle strade di due quarteri il n° 1 e il n° 5. Ciò consentì all’impresa cinese Sinohydro (con un milione di dipendenti dei quali 100.000 tecnici) di avviare il suo contratto riguardante la costruzione di 4mila unità abitative sulla base del nostro progetto.
Il 15 febbraio iniziò la rivoluzione a Benghazi e il 16 ad Al Bayda, sede dei nostri uffici. Venerdì 18 febbraio 2011, dopo aver assistito a tre giorni di scontri fuori dalla nostra casa, decidemmo di rientrare in Italia.
L’autista, dopo la Preghiera, caricò le valigie di noi sei italiani, sul furgone, che chiamavamo Milka per la particolarità del suo colore lilla, per portarci a Benghazi. Infatti, in quella stessa mattinata erano state rese inutilizzabili le piste dell’aeroporto di Al Bayda e così dovemmo viaggiare per circa 200 km.
Tutti noi avevamo messo in valigia poche cose, convinti che nel giro di qualche settimana saremmo rientrati in Libia.
Per arrivare a Benghazi, fulcro da cui iniziò la rivolta libica, attraversammo aree colpite da scontri e incendi. Una volta arrivati non trovammo posti disponibili sui voli di rientro a Tripoli. Gli alberghi, situati nel centro città, non potevano essere raggiunti perché infuriava la rivoluzione. Per fortuna alcuni amici ci informarono che sarebbe arrivato un aereo della compagnia Buraq, di cui comprammo i biglietti e così volammo su Tripoli alle 20,30.
Tripoli ci sembrava tranquilla, tanto da andare a cena a piedi (circa 2 km) al ristorante dell’Hotel Corinthia. La rivolta era distante più di 1000 chilometri.
Sabato 19 febbraio ci recammo alla sede dell’Alitalia di Tripoli per fare il biglietto, ma gli uffici erano chiusi per turno di riposo nonostante la situazione di allarme. Andammo quindi all’Ambasciata Italiana per informare gli addetti della nostra situazione. Chiedemmo anche a loro indicazioni su come poter rientrare in Italia, ma non ricevemmo soluzioni. Parlando poi con altri connazionali, capimmo che se fossimo andati in aeroporto la mattina presto avremmo potuto fare i biglietti direttamente ai banchi dell’Alitalia, qualora ci fossero stati posti disponibili.
Domenica 20 febbraio arrivammo in aeroporto alle 4,30 del mattino, il volo sarebbe partito alle 6 circa. Con molta fortuna acquistammo i biglietti, peraltro ad un costo inferiore al solito. Il volo partì in orario e alle 10,30 eravamo già a Trieste.
Non mi rendevo conto che da quel giorno sarebbe iniziato un “calvario”, un periodo molto difficile che non si è ancora concluso.
Lunedì 21 febbraio 2011 rientrai in ufficio a Udine e attesi qualche giorno per capire come comportarmi con i collaboratori che lavoravano alla progettazione ed esecuzione della nuova città ed alle altre progettazioni delle infrastrutture di Tobruk e di Cirene. La società d’ingegneria aveva circa 60 collaboratori fissi a Udine, la società che operava in Libia aveva una decina di collaboratori in Italia e una ventina in Libia, senza considerare le collaborazioni esterne. Quando in marzo iniziarono i raid della coalizione francese, inglese e americana, capii che il rientro in Libia non sarebbe avvenuto a breve. Questa convinzione era suffragata anche dai contatti con i libici che avevano i telefoni attivi.
Inviai le lettere di licenziamento ai collaboratori libici, le lettere di sospensione dell’attività dei contratti per cause di forza maggiore alla HIB e iniziai ad allontanare i primi collaboratori per la cui formazione avevo investito anni
La delusione più profonda fu di avere visto andare in fumo il lavoro di trent’anni di investimenti, di formazione di personale. Al contempo iniziai a darmi da fare per cercare un aiuto dallo Stato Italiano per me e per tutti coloro che si trovavano nella mia situazione, al fine di farci liquidare i crediti che erano stati maturati in Libia.
Un calvario, ho scritto, e questo è stato: mi dicono che leggere tutto quello che è accaduto richiederebbe una attenzione fin troppo elevata per un lettore normale. Ma, per chi vorrà, DeCeccoallegato c’è l’elenco dei fatti, degli incontri, delle promesse mancate: ricordo ogni data, ogni episodio. Per gli altri, basterà sapere che abbiamo lottato, senza risultati. Ci sono state proposte di legge per la liquidazione dei crediti delle aziende italiane in Libia, usando i fondi del trattato di amicizia firmato nel 2008 da Gheddafi e Berlusconi: un accantonamento da 225 milioni di euro all’anno. C’è stato un censimento sulle aziende coinvolte e la loro esposizione, interpellanze parlamentari, tante promesse. Ci dissero che le aziende interessate sarebbero state “contattate entro la fine del 2012 per concordare prospetti di liquidazione e la riattivazione dei contratti ritenuti ancora di prioritario interesse libico”.
Trascorse tutto l’anno 2013 senza ricevere alcuna chiamata e informazione. Trascorse anche tutto l’anno 2014 senza che nessuno ci informasse dell’avanzamento delle nostre pratiche. Fummo costretti ad arrangiarci per cercare di raggiungere lo scopo per sopravvivere sia ai creditori sia allo stato d’animo opprimente.
Il 07 maggio 2015 consegnai il progetto esecutivo delle infrastrutture di Cirene alla HIB di Tripoli. Nel mese di luglio 2015 furono approvate le progettazioni della nuova città e le fatture riguardanti le prestazioni eseguite fino ad allora. Tutto ciò è il frutto di innumerevoli viaggi a Tripoli, specialmente nel 2015 (di cui non racconto le vicissitudini ed i rischi), e della collaborazione di alcuni tecnici libici che mi hanno consentito di concludere tutte le procedure burocratiche preliminari al tanto atteso pagamento… pagamento che non è ancora avvenuto.
Non voglio raccontare nel dettaglio gli stati d’animo di questi ultimi cinque anni passati dal mio rientro in Italia.
Mi sento solo di dire che in quest’interminabile attesa di risposte, vedendo tutto ciò che ho costruito in una vita sgretolarsi inesorabilmente, la sensazione di sconforto e di angoscia è stata così forte da sentirmi completamente impotente e senza forze per reagire… In quei momenti era impossibile trovare pensieri positivi. Ho pensato molte volte a quegli imprenditori che preferiscono farla finita e credo di riuscire a capire il loro stato d’animo.
Assieme agli altri imprenditori presenti in Libia nel febbraio 2011 ci chiediamo il motivo per cui uno Stato non tuteli e risarcisca coloro i quali, senza causa, sono stati costretti ad interrompere i contratti di lavoro. Ci chiediamo il motivo per cui non siamo stati almeno assistiti nelle operazioni di recupero dei crediti maturati e di ripresa delle posizioni raggiunte in Libia con grandi sacrifici e senza aiuto di alcuno. La maggior parte delle 80 imprese e società, presenti in Libia fino al 2011 e con crediti da esigere, è composta da piccole realtà. Queste piccole realtà negli anni furono richiamate in Libia per riprendere i lavori, ma senza liquidità come avrebbero potuto farlo?
Io l’ho fatto!
Ho risposto alla chiamata di ripresa dei lavori, indebitandomi con le banche. Ho fatto tutto ciò per non essere sostituito e al fine di concludere le progettazioni, che solo in questo modo potevano essere approvate definitivamente, e nella speranza di raggiungere l’obiettivo di essere pagato.
Nonostante ciò gli aiuti sono spesso destinati a salvare solo le medie e grandi imprese. Comprendo che siamo dei piccoli imprenditori e non possiamo competere con le grandi realtà, ma noi, come loro, contribuiamo allo sviluppo dell’Italia e potremmo avere un ruolo nella stabilizzazione della Libia. Anzi, rispetto alle grandi imprese, noi, piccole e medie imprese, siamo quelle che conoscevano il territorio.
Ritengo anche che non bastino i decreti, e che non si possano creare posti di lavoro senza la partecipazione di quegli imprenditori “che ce l’hanno nel sangue”, e che hanno la voglia di fare e di impegnarsi a testa bassa per raggiungere l’obiettivo di sviluppare l’azienda e di sostenere i collaboratori e, poi, anche la propria famiglia.
Oltre alla beffa economica (e alla disperazione che ne consegue) — aveva avvertito Gianfranco Damiano, presidente della Camera italo libica — è in gioco «la perdita di un patrimonio di relazioni, di esperienze, di professionalità, che ha richiesto ingenti investimenti in risorse umane, economiche e temporali, mentre la costante aggressività delle aziende di altri Paesi come Turchia, Spagna, Francia, Cina, USA le vede muoversi più agevolmente grazie a una reale sinergia e a una costante “protezione” da parte dei rispettivi organismi governativi di appartenenza».
Una profezia che si è avverata. Il Governo provvisorio con decisione n° 122/2014 autorizzò la sostituzione della mia società con una impresa turca (AZERJI SOKIA GROUP) nella progettazione ed esecuzione della nuova città di Sidi Al Hamri. Ho comunicato quello che mi stava accadendo alle istituzioni, ma senza ricevere alcuna risposta.
Le domande che mi sono posto in questi lunghi cinque anni sono tante:
Perché il Governo non ha utilizzato i fondi del Trattato di Amicizia per liquidare i nostri crediti? I fondi sono pur stati utilizzati dal Governo Letta per finanziare le ristrutturazioni edilizie, la cassa integrazione (che condivido) e chissà in quali altre situazioni. Anche l’attuale Governo Renzi ha utilizzato quei fondi nella legge di Stabilità del 2015, per realizzare le piste ciclabili.
Perché noi siamo stati dimenticati?
Perché il Governo non ha utilizzato i fondi congelati per darci almeno un acconto? Il Consiglio europeo l’aveva autorizzato nel novembre 2011, ma nessuno si è mosso. I nostri problemi, se trattati singolarmente, sono insignificanti rispetto a quelli che la Libia stava e sta attraversando. Inoltre i responsabili libici sono periodicamente sostituiti e così i nostri problemi rimangono irrisolti. Per questi motivi è comprensibile che i tempi di pagamento si prolunghino nell’indifferenza delle Istituzioni italiane.
A che cosa è servito informare i ministri degli Affari esteri e dello Sviluppo economico che si sono succeduti e tanti parlamentari ed europarlamentari (più di 100)? Molti si sono dimostrati sensibili alle nostre rimostranze, nonostante i ministeri preposti siano rimasti sordi e non abbiano avviato le procedure che ci avrebbero consentito di risolvere i nostri problemi.
Tv e giornali ci hanno ignorato: noi che stavamo lavorando per mantenere le nostre strutture in Italia, i collaboratori e le loro famiglie e stavamo contribuendo a creare lo sviluppo economico del nostro Paese.
Il mio pensiero va a quelli che sono falliti nell’indifferenza delle istituzioni, anche se non avevano nessuna colpa, se non quella di trovarsi in Libia a lavorare nel 2011.
Alcuni mi hanno detto: potevate assicurarvi con la Sace. A questi rispondo che solo due società su 130 erano assicurate e che tutti eravamo sereni perché ci sentivamo tutelati dal Trattato di amicizia. Con tanto rammarico vorrei concludere dicendo che l’orgoglio di sentirmi italiano, specialmente quando ero all’estero, è ormai svanito a causa delle delusioni che ho subito in questi anni da chi aveva tutti i mezzi e le disponibilità per aiutarci e non l’ha fatto.
Chi non vive una situazione simile a quella che ho descritto può solo immaginare il malcontento, ma non può capire fino in fondo le ripercussioni psicologiche che abbiamo patito e che continuiamo a subire.
Dimenticavo: anche le banche hanno fatto la loro parte: quando lavoravo in Libia gli interessi erano del 3÷4%, al mio rientro i tassi sul debito sono lievitati e hanno raggiunto percentuali dell’ordine del 17÷18% e oltre. Ora, per far fronte ai debiti dovrò accendere un mutuo che pagherò con la pensione che mi è stata erogata lo scorso novembre, dopo 36 anni di lavoro.
Gianni De Cecco