Dopo lo shock di una malattia grave – tre i casi considerati: infarto, ictus o cancro – rientrano al lavoro 90 uomini su 100, 87 donne su 100. Numeri non così distanti, ma la vera differenza emerge guardando al “come” rientrano. Per gli uomini, rispetto a prima, le ore lavorate aumentano (quasi un’ora in più al giorno); per le donne restano invariate. Se poi si guarda alla fascia di popolazione più istruita, la diversa reazione emerge ancora più nitida: gli uomini intensificano la presenza (difficile dire se per recuperare in qualche modo il tempo dell’inattività, o – come è stato ipotizzato, ma è materia da psicologi – per rimuovere la fase di difficoltà vissuta) mentre la parte femminile tende a prendere le distanze. Che cosa significa? «Che politiche lavorative e sociali devono essere più mirate considerando le esigenze di entrambi», spiega Francesca Zantomio, professoressa di Economia al Dipartimento di Economia di Ca’ Foscari.
Zantomio è, con Elisabetta Trevisan dell’università degli Studi di Padova, una delle economiste autrici dello studio pubblicato dalla rivista Labour Economics. La ricerca è basata sulle indagini campionarie Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe e English Longitudinal Study of Ageing, che hanno coinvolto circa 130mila ultracinquantenni, osservati per oltre un decennio, e copre 16 Paesi europei. E’ stato considerato il periodo del primo biennio a partire dallo shock di salute.
L’indagine mostra che lavoratori e lavoratrici ‘over 50’ reagiscono in modo differente all’insorgere di gravi problemi di salute. Mentre, se fisicamente ristabiliti, gli uomini tendono a lavorare più ore, le donne preferiscono godersi più tempo libero. I single, poi, rischiano, più di altri, di uscire dal mercato del lavoro.
Secondo le studiose, conoscere la diversità di reazioni e preferenze emerse tra uomini e donne costituisce un ingrediente fondamentale per un progettare efficaci politiche di integrazione lavorativa e welfare. In media infatti, il primo episodio di infarto, ictus o cancro finisce col raddoppiare il rischio che un ultracinquantenne non lavori più. Il futuro lavorativo però si rivela cruciale per garantirne tenore di vita e benessere economico negli gli anni a venire. Di qui la necessità per la politica pubblica di un compromesso tra l’incentivo al lavoro e il supporto al reddito nel caso si termini l’attività lavorativa.
«Particolari politiche di integrazione lavorativa possono risultare inefficaci, e inefficienti, se progettate senza tener conto delle esigenze delle persone destinatarie – spiega Francesca Zantomio,. Chi percepisce il reddito principale in famiglia, tipicamente l’uomo, tende a lavorare di più, una volta ristabilito dopo lo shock. Politiche mirate di riqualificazione lavorativa o abbattimento delle barriere architettoniche, possono credibilmente supportare il reinserimento di questi lavoratori». Ma questo funziona solo quando una qualche forma di disabilità condiziona il rientro al lavoro: le motivazioni di un mancato rientro però possono essere altre.
«La donna, se le condizioni economiche della famiglia lo permettono, preferisce avere più tempo libero dal lavoro, anche perché percepisce un accorciamento della propria speranza di vita – continua la studiosa – Non a caso, sono proprio le donne più istruite a ridurre maggiormente lo sforzo lavorativo, nonostante siano colpite da peggioramenti di salute meno gravi. In questo caso, potrebbe rivelarsi inappropriato insistere per un completo reinserimento lavorativo. Chi non ha un partner sul quale contare per un aiuto pratico, ad esempio nella cura personale o domestica, o nel trasporto al lavoro, mostra particolari difficoltà a rimane attivo, anche se, proprio in assenza di altre entrate familiari, rischia di subirne pesanti ricadute finanziarie».