Quanto, la scorsa estate, la trevigiana Steelco – tra i principali produttori mondiali di apparati e sistemi per il lavaggio, disinfezione e sterilizzazione nell’ambito professionale medico-sanitario, nel settore della ricerca scientifica e nell’industria farmaceutica – è entrata nell’orbita della tedesca Miele, ha contestualmente annunciato un piano di crescita con 100 assunzioni. Non è il solo caso di acquisizione che si traduce in un potenziamento, e di acquisizioni ce ne sono state molte: Secondo Kpmg, dal 2011 al 1. semestre 2017 nell’area triveneta si sono concluse 548 transazioni, per un controvalore di 27 miliardi. Di queste, 299 sono gli investimenti da parte di società estere o con sede legale in altre regioni italiane. Dunque il Nordest è un target per le aziende straniere.
Con quali effetti?
A ogni notizia di passaggio di una impresa locale in mani straniere emerge il timore che questo significhi perdita di know how e calo di competitività; al tempo stesso, se una impresa italiana acquista uno stabilimento all’estero o effettua una acquisizione, scatta l’accusa di delocalizzazione, una strategia ritenuta causa di perdita di capacità produttiva e di lavoro. Un rapporto del Cer – Centro Europa Ricerche, società di ricerca che elabora studi nel campo dell’economia applicata – datato marzo 2017 fa però piazza pulita di pregiudizi e timori.
Fra gli autori l’economista veneto Giancarlo Corò, docente a Ca’ Foscari, che ha analizzato i dati sugli investimenti esteri di fonte ICE e Reprint assieme a quelli sui forniti dall’agenzia Veneto Lavoro. “Le imprese che investono in terra straniera soffrono un gap di conoscenze: questo le porta a selezionare profili più qualificati, a cominciare da laureati e manager, attivando dunque processi favorevoli al territorio”. I risultati mostrano infatti i benefici sull’occupazione legati all’apertura internazionale delle economie locali.
Stando ai dati, la dinamica dell’occupazione nelle imprese manifatturiere a controllo estero nel periodo 2007-2014 evidenzia un andamento negativo (-9,2 per cento), che in ogni caso risulta di gran lunga migliore rispetto al crollo avvenuto nello stesso periodo nell’insieme dell’industria manifatturiera italiana (-20,6 per cento). Considerando anche i servizi, nel complesso delle imprese a controllo estero il calo dell’occupazione si riduce all’1,6 per cento, a fronte di un -8,1 per cento per l’insieme dell’economia.
Questi numeri – secondo il report CER – “evidenziano peraltro come siano del tutto infondate le tesi di chi paventa l’esistenza di un “supermercato Italia”, in cui le multinazionali estere si starebbero impadronendo dei principali asset industriali del Paese. Non solo: valore aggiunto per addetto, investimenti per addetto e incidenza del margine operativo lordo sul valore aggiunto sono sostanzialmente doppi nelle imprese a controllo estero rispetto alle imprese a controllo nazionale, mentre la spesa in attività di ricerca e sviluppo è quasi quattro volte più alta”.
Sul fronte occupazione, “la necessità delle multinazionali di superare le asimmetrie informative rispetto ai competitors locali, incentiva ad assumere lavoratori più qualificati, con maggiore esperienza e con conoscenze specifiche del contesto”. Per verificare questa ipotesi è stato esaminato uno dei più accurati archivi informativi sull’occupazione esistenti in Italia, costituito dalle comunicazioni obbligatorie su iscrizioni e cessazioni lavorative raccolte dall’Agenzia Veneto Lavoro (SILV) che, a partire dal 2007, rileva tutti i flussi lavorativi interni alla regione, consentendo di ricavare informazioni molto dettagliate sugli occupati di ogni impresa, quali età e qualifica professionale, titolo di studio, nazionalità. L’archivio è poi stato incrociato con altri (Reprint) per individuare il gruppo di imprese residenti in Veneto controllate da multinazionali straniere, e collegato con le informazioni sui bilanci aziendali disponibili in AIDA
E’ stato selezionato un gruppo di imprese simili per settore e dimensione (valore del fatturato), venete e a controllo estero, per ovviare alla differenza (le multinazionali estere sono più presenti nei settori a media e alta tecnologia). Si può dunque osservare che nelle imprese controllate da multinazionali estere c’è una quota significativamente maggiore di lavoratori qualificati (dirigenti, quadri e tecnici) e con maggiore esperienza. A questo è da aggiungere che nelle filiali a controllo estero risulta una minore incidenza di lavoratori stranieri i quali, almeno in Italia, occupano funzioni a bassa qualificazione e, di conseguenza, più difficilmente impiegabili nelle attività richieste in Veneto dalle multinazionali.
“In definitiva, dalla nostra analisi emerge che le imprese a controllo estero tendono a occupare figure professionali più elevate rispetto alle imprese locali, valorizzando il capitale umano anche attraverso remunerazioni più elevate. È invece minore la presenza di lavoratori stranieri e di giovani al di sotto dei trent’anni, a conferma che le imprese a controllo estero hanno bisogno di addetti con esperienza e competenze specifiche anche per superare la liability of foreignness”.
L’analisi fin qui svolta ha il limite di fermarsi agli impatti sulla singola impresa a controllo estero. Che cosa succede se si estende l’analisi al mercato locale del lavoro? “I risultati dell’analisi svolta – sostengono gli autori – mostrano come la presenza multinazionale costituisca un importante fattore di modernizzazione e sviluppo delle economie locali. L’evidenza empirica sembra sostenere che gli investimenti esteri hanno contribuito a rafforzare, non certo indebolire o erodere, i beni comuni industriali sui quali si fondano le produzioni del made in Italy. Le multinazionali a controllo estero tendono infatti a concentrarsi in settori diversi da quelli di specializzazione dell’industria italiana, contribuendo a sviluppare una complementarità produttiva e ad arricchire la varietà delle economie locali”.
Soprattutto, le multinazionali estere forniscono maggiori sbocchi professionali alle figure più qualificate, riducendo per contro la domanda di lavoratori stranieri per le mansioni unskilled. I risultati sono statisticamente significativi sia a livello aziendale, sia prendendo in esame il sistema produttivo locale, dove la presenza multinazionale si associa anche a una maggiore intensità innovativa e a una maggiore qualità istituzionale. “Il problema – è la conclusione – è semmai che tale presenza risulta in Italia ancora limitata e, almeno in termini di occupati, in calo dal 2008”.