Le imprese italiane fanno i conti con la riforma fiscale voluta dall’amministrazione Trump. A Vicenza – provincia che ha negli Usa il proprio secondo mercato di export, per un valore superiore a 1.400 milioni di euro, dopo la Germania – oggi Confindustria ha chiamato David H. Rosenbloom, uno dei massimi esperti del sistema fiscale americano, per spiegare quali sono i rischi, ma anche le opportunità di un cambiamento che è in vigore dal 1. Gennaio 2018, ma che per alcuni aspetti è retroattivo. «La riforma sembra proporre interessanti opportunità per le aziende domiciliate negli Usa – spiega Marcello Poggioli, professore associato di Diritto tributario all’università di Padova, che accompagna Rosenbloom nell’incontro con gli imprenditori – ma anche qualche insidia per i nostri esportatori».
Ne è ben conscio Remo Pedon, vicepresidente di Confindustria Vicenza con delega ai Mercati esteri: «L’aliquota fiscale sugli utili societari che scenderà dal 35% al 21% pare essere l’elemento che meglio caratterizza la rivoluzione fiscale di Donald Trump. Un taglio così radicale delle tasse sulle imprese pone delle domande: l’obiettivo è ridare competitività al sistema industriale Usa, riportare le imprese in America e rilanciare fortemente gli investimenti industriali, ma sono traguardi credibili e capaci di dare uno scossone alla crescita o, come paventano gli oppositori di Trump, l’inizio di un’enorme impennata dell’indebitamento pubblico americano, con effetti inflattivi e contraccolpi economici negativi? Se tutto andrà bene si sprecheranno gli applausi, ma se non sarà così c’è da chiedersi quanto questa riforma possa durare».
La stessa azienda di Pedon (leader del mercato di cereali, legumi e semi) guardava già da un biennio alla possibilità di aprire uno stabilimento in Usa, dove ha un ufficio logistico: «Esportiamo per 15 milioni: non ci sono solo le minori tasse, c’è anche il dazio sulle nostre merci per il 10% che verrebbe meno operando nel Paese. Sono molti i fattori ai quali guardare».
In effetti, dopo anni di tour promozionali a Nord-Est in cui era soprattutto la Carinzia a proporsi alle imprese potenzialmente interessate a delocalizzare, nell’ultimo periodo e ancora prima che si conoscesse il contenuto della riforma Trump molti stati americani si sono fatti conoscere proponendo incentivi sotto varie forme, dai finanziamenti agevolati al congelamento delle tasse nei primi cinque anni. Fra gli eventi più recenti quello organizzato da SelectUsa (che si propone come il network in grado di favorire le aziende intenzionate a sviluppare rapporti commerciali o stabilire una propria sede negli Stati Uniti) organizzato con Agenzia Ice.
E’ chiaro che prendere e aprire una sede negli Usa non è alla portata di tutti, a prescindere dal beneficio fiscale: servono una struttura e una massa critica non indifferenti. Detto questo, “i tempi di realizzazione sono più rapidi e la fase burocratica più veloce di quelli che conosciamo in Italia – aggiunge Pedon – Se per costruire uno stabilimento produttivo, dal prpgetto al taglio del nastro, possono servire un anno e mezzo o due, in caso di linee produttive non particolarmente complesse, per un magazzino possono bastare pochi mesi”.
La riforma Trump – spiegano i due docenti – «cerca di favorire le esportazioni dagli Stati Uniti, prevedendo un’imposizione effettiva agevolata. D’altro canto, sul versante degli investimenti in ingresso negli Usa e dei redditi d’impresa generati sul suolo americano, le nuove disposizioni riducono in modo drastico la deduzione degli interessi passivi e negano la deduzione di alcuni pagamenti. Inoltre, per le società di capitali statunitensi che appartengono a grandi gruppi multinazionali, le nuove disposizioni impongono una nuova “minimum tax” sui pagamenti effettuati alle consociate estere».
Dati da tenere ben presenti per chi esporta e «gli Stati Uniti si confermano un mercato di riferimento per l’export italiano – spiega Alessandro Terzulli, chief economist di Sace -. Con oltre 36 miliardi di beni venduti nei primi 11 mesi del 2017 e una crescita del 9%, prevediamo un ulteriore sviluppo nei prossimi tre anni a un tasso medio del 5,6%. Tra i settori di punta la meccanica strumentale e i mezzi di trasporto che da soli rappresentano oltre il 40% del nostro export, ma anche i comparti del Made in Italy tradizionale. Quanto al Veneto, «nei primi nove mesi del 2017 l’export negli Stati Uniti è in linea con i risultati a livello nazionale, trainato soprattutto dalle performance delle province di Vicenza, Treviso e Verona».
La stessa Sace con la controllata Simest – il polo italiano dell’export e dell’internazionalizzazione del Gruppo Cdp – ha accompagnato i piani di sviluppo negli Usa di molte imprese venete confermando la attrattività di questo mercato per i beni del Made in Italy. Fra i casi più recenti:
- Plissé SpA, azienda padovana di moda, ha ottenuto un finanziamento da 1,8 milioni di euro per potenziare la presenza sul mercato Usa attraverso l’apertura di un nuovo showroom e di un ufficio a New York
- Exor International Spa di Verona, attiva nella commercializzazione di hardware e software realizzati in Italia, ha potenziato le attività della controllata statunitense creando una struttura commerciale in grado di servire anche l’area ovest degli USA, il Canada e il Messico dove esistono grandi opportunità per il settore
- ITECA, Pmi veronese specializzata in impianti per la produzione di pasta, pane, pizza e dolci tipici italiani, in particolare panettoni e pandori, ha potuto realizzare investimenti in ricerca & innovazione per un milione di euro funzionali alla crescita nei principali mercati di riferimento della società, tra cui Stai Uniti e Canada, Russia, Asia centrale e Medio Oriente, Sud America.
La riforma Trump in pillole
I CONTENUTI – La fiscalità statunitense rappresenta un tema d’importanza tutt’altro che secondaria nella prospettiva delle imprese italiane dei nostri distretti, spesso impegnate in attività commerciali o d’investimento sul suolo americano. Il primo gennaio 2018 è entrato in vigore un primo, assai significativo “pacchetto” di misure fiscali, mirato alla realizzazione di una Riforma fiscale fortemente propugnata, sin dalla campagna elettorale, dal presidente americano Donald Trump, con effetti sia positivi che negativi per chi ha rapporti d’affari con gli Usa.
IN POSITIVO – Due sono gli aspetti della riforma Trump che aprono a nuove opportunità per le imprese italiane che sono domiciliate con struttre commerciali o produttive negli Usa.
In primo luogo la nuova legislazione si presenta come altamente favorevole per le società di capitali statunitensi, riducendo l’aliquota d’imposta dal 35% al 21%: un taglio di 14 punti percentuali che ha pochi eguali.
In secondo luogo le nuove regole cercano di favorire le esportazioni dagli Stati Uniti, per esse prevedendo un’imposizione effettiva agevolata.
IN NEGATIVO – Le disposizioni della Riforma fiscale entrano in vigore il 1 gennaio 2018.
Sul versante degli investimenti in ingresso negli USA e dei redditi d’impresa loro tramite generati sul suolo americano, le nuove disposizioni riducono in modo drastico la deduzione degli interessi passivi e negano la deduzione dei pagamenti effettuati nei confronti di entità “ibride” o all’interno di transazioni “ibride”. Inoltre, per le società di capitali statunitensi che appartengono a grandi gruppi multinazionali, le nuove disposizioni impongono una nuova “minimum tax” sui pagamenti effettuati alle consociate estere.
LO SCENARIO – Gli Stati Uniti sono un mercato di riferimento per l’export italiano: 36 miliardi di beni venduti nei primi 11 mesi del 2017 in crescita del 9%, e con la previsione di un ulteriore sviluppo nei prossimi tre anni a un tasso medio del 5,6%. Tra i settori di punta la meccanica strumentale e i mezzi di trasporto.
Le prime regioni per volumi sono Lombardia (che segna +15,1%), Emilia Romagna, Veneto, Piemonte e Toscana. Incontro fra imprese ed esperti di fiscalità americana sono stati organizzati in diverse città per informare sulle novità.