Gli ultimi eventi in Libia e la degenerazione dello scenario politico stanno avendo, come effetto collaterale, una forzata pausa operativa delle imprese italiane che qui lavoravano, con la conseguente sospensione dei relativi flussi finanziari. E di imprese italiane coinvolte ce ne sono a centinaia: molte sono Pmi, che – contando sul trattato di amicizia siglato con l’Italia – avevano cercato all’estero una strada per far fronte alla situazione italiana (poche commesse, mercato fermo, mancati pagamenti della Pubblica amministrazione).
Il risultato è che per recuperare i crediti maturati con il Paese africano – una partita da 600 milioni che coinvolge circa 1.500 addetti di imprese appese a un filo) – dopo tre anni e mezzo di solitaria battaglia si riparte praticamente dall’inizio.
«La Camera di commercio italo-libica – scrive il presidente Gian Franco Damiano in una lettera datata 11 agosto inviata al premier Matteo Renzi, al ministro degli Affari esteri Mogherini, al ministro dell’Economia e Finanze Padoan e al ministro dello Sviluppo economico Guidi – è da tempo impegnata al fine di ottenere la soluzione delle complesse problematiche procedurali, tecniche, finanziarie ed economiche in corso. In particolare, la questione più urgente e rilevante che la Camera segue da tempo, è quella relativa ai crediti maturati dalle aziende italiane nel corso degli anni Novanta e, più recentemente, nel 2011. Siamo consapevoli che al momento non è possibile “chiudere” queste partite, ma è pur vero che in un cassetto del Mise sono disponibili svariati milioni di euro, accantonati per l’autostrada costiera libica prevista da un accordo Berlusconi-Gheddafi; una piccola quota di questi fondi sono stati già prelevati e utilizzati dal precedente presidente del Consiglio Enrico Letta per una cifra pari a 100 milioni di euro per il finanziamento della cassa integrazione».
Fondi che ora potrebbero risultare un’ancora di salvataggio: per questo «la Camera di Commercio italo-libica richiede e auspica la creazione di un fondo di garanzia per le imprese coinvolte, al fine di allentare la forte tensione finanziaria ed evitare ulteriori effetti negativi per le imprese stesse e per il sistema produttivo italiano nel suo insieme».
Per gli imprenditori che erano rimasti in Libia nonostante tutto, cercando la via di non perdere quando costruito – mentre le aziende di altri Paesi, dalla Cina a Spagna e Turchia, più supportate e strutturate, andavano aggiudicandosi la maggior parte degli appalti – è come essere tornati a febbraio 2011, ai tempi della prima fuga forzata. Fra loro c’è il friulano Gianni De Cecco della Friulana Bitumi: «Ai primi di agosto, alla fine del Ramadan, dovevo andare a Tripoli a illustrare una presentazione del progetto della nuova città di Sidi Al Hamri: video e power point di approfondimento. Un lavoro che mi ha impegnato più di un mese e che era stato richiesto dalla HIB, Housing and infrastructure board, di Tripoli. Una commessa che avrebbe garantito lavoro alle nostre maestranze italiane, e ossigeno all’azienda. Ora non si può procedere perché è pericoloso e gli uffici sono chiusi. Peraltro, come nel 2011, le Istituzioni italiane invece di aiutarci hanno avuto altro a cui pensare. La situazione è drammatica per i libici: manca l’energia elettrica e così l’acqua potabile perché la maggior parte la deve pompare, manca il carburante e quindi l’approvvigionamento delle derrate alimentari, molti sono fuggiti in Tunisia e in Egitto. Quanto a noi, abbiamo bisogno di un intervento del nostro governo: al momento non si è realizzata nemmeno la certificazione dei crediti maturati necessaria ad alleggerire la tensione finanziaria sulle aziende».