Mirko Artuso è un attore che conosce il lavoro in fabbrica. Oggi percorre il Veneto con il suo spettacolo, raccontando il lavoro che cambia. “Sono nato nel 1966. Per capire quanto le cose sono cambiate nel corso della mia vita basti pensare che mi chiamo Mirco con la C e non con la K come lo scrivo io perché, quando mi hanno battezzato, il parroco non ne voleva sapere perchè Mirko con la K lo scrivono i comunisti. “Lavorar” è un viaggio quasi serio tra vecchi e nuovi modi di vivere il lavoro che mi aiuta a capire come sono cambiate le cose intorno a me”.
In quattro capitoli Mirko ripercorre la sua vita, da operaio a attore, dall’infanzia ai giorni nostri alternando racconti personali a invenzioni, riflessioni, ricordi. Ne esce un piccolo affresco disincantato e allo stesso divertente e poetico.
“Il mio primo lavoro è stato il tipografo. Avevo da poco compiuto i 14 anni e mio padre era morto da qualche mese. Componevo i testi con i caratteri in piombo e poi stampavo. L’estate si passava così, quasi sempre lavorando. Poi c’era la vendemmia a fine estate. C’era un mondo di adulti che ti aiutava a capire (con poche regole chiare e altrettanti sguardi severi) cos’ era il lavoro”.
L’ultimo lavoro è stato il carpentiere nella centrale termoelettrica dell’Enel di Fusina, a Venezia: “Facevo la manutenzione agli impianti. Un lavoro duro. Nel frattempo nei viaggi in furgone da Salgareda a Fusina, con i colleghi operai che involontariamente suggerivano battute, scrivevo i miei pezzi comici che la sera facevo davanti a un piccolo pubblico nelle sagre di provincia o nelle feste dell’Unità. Alternavo la fatica del lavoro alla gioia della risata che arrivava dal pubblico”.
Quando le serate hanno iniziato ad aumentare, è diventato difficile mantenere i due impegni: Mirko aveva vent’anni, e – con il supporto di sua madre – ha fatto una scelta. “Ho conosciuto Marco Paolini e frequentato lo Studio 900 a Treviso. Ho fatto i primi laboratori con lui e altri attori e nel frattempo continuavo a lavorare in fabbrica. Nel 1987 è arrivata l’occasione che non mi sono lasciato scappare. La compagnia Laboratorio Teatro Settimo diretta da Vacis faceva un lungo provino di tre giorni e così è cominciato il mio viaggio professionale nel teatro”.
La fortuna, racconta, è stata da subito trovare un gruppo di persone con cui crescere: “Non sono solo in questo viaggio, mi faccio aiutare da autori come Meneghello, Maino, Bugaro, Camon e molti altri che hanno raccontato magistralmente questa nostra terra”. Una terra passata dal lavoro in campagna a quello in fabbrica, e poi ancora da una maggioranza di dipendenti a padroni: “Persone abituate a lavorare per altri hanno trovato una autonomia e una ricchezza che non conoscevano. Come le abbiano utilizzate, in molti casi, è sotto gli occhi di tutti”.
Nel 1989 Artuso è stato protagonista con Marco Paolini di Libera nos (premio IDI), lo spettacolo che gli ha fatto conoscere la lingua e il mondo di Luigi Meneghello, a cui resta legato per sempre. “Parlo e racconto di lavoro, dei diversi modi di intendere il lavoro che abbiamo attraversato dai decenni del dopoguerra, degli anni 50 a oggi. Racconto personaggi veri e genuini come gli zii di Meneghello, oppure quelli più fragili e strampalati dei nostri giorni. Personaggi che si alzano presto e lavorano sodo. Però racconto anche della rivolta interiore al sistema che tutto schiaccia e trafigge e rende poltiglia e gli uomini automi con compiti da organizzare e mansioni da portare a termine, lo slow in contrapposizione al fast, il tempo di cui tornare ad impadronirsi, i rapporti umani da riconquistare, i volti e gli occhi da incrociare, la vita da uomini alla quale riconnettersi tralasciando il vortice di impegni inutili, che crediamo ineludibili ed importantissimi”.
Così basta poco per raccontare: il cortile di una contrada, una sedia e tante storie di uomini e donne che hanno fatto il lavoro e attraverso il lavoro sono cambiati. La rassegna si chiama appunto “Teatro in casa”, e con una formula nuova – gli attori escono dagli spazi tradizionalmente a loro riservati, e si avvicinano ai un pubblico fatto di famiglie, o di chi vive in una strada o quartiere, sempre con un contatto ravvicinato fra chi interpreta e gli spettatori – coinvolge i 12 comuni dell’Alto vicentino. Una sera il palcoscenico è una osteria dismessa, un’altra un portico o un mulino (ingresso libero).