Vittorio Veneto, la “Biella” del Nordest. Negli anni d’oro qui lavoravano cinque lanifici. Ne è rimasto uno solo. Degli 800 addetti, mille con l’indotto, ne sono rimasti 40, con l’indotto 60. Una serie di chiusure iniziate fin dagli anni Sessanta; l’ultimo concorrente ha chiuso nel 2001. Senza giri di parole: qui, la crisi, non ha trovato nulla da mordere. Quello che resta ha il muso tranquillo della dozzina di pecore nere – anzi per la verità marrone scuro – che vivono nel prato all’esterno del lanificio Bottoli.
Da qui escono tessuti per Armani, Canali, Corneliani, Fay, Trussardi, Versace, Pal Zileri e altre griffe internazionali. Peccato che chi acquista non sappia, magari fino al momento di guardare l’etichetta interna per la pulisecco, che la materia prima è made in Italy e la produzione realizzata in Veneto da manifatturieri di fatto sconosciuti al grande pubblico.
Le pecore sono un punto di partenza; quello di un progetto che vuole valorizzare la lana italiana. Nel 2000 Roberto Bottoli, in viaggio fra Abruzzo, Marche e Puglia, identificò e selezionò i migliori greggi rimasti di due specie di pecore merine italiane. Sono la Sopravissana e la Gentile di Puglia. Il passo successivo è stato creare i primi gruppi di pecore dalle diverse gradazioni di marrone. “perché in origine, quello scuro era il colore più diffuso, ma poi nelle selezioni è stato preferito il bianco, adatto alla tintura”, spiega Bottoli, nel pugno un fiocco di lana merina italiana: “Vede? Se stringo il pugno e poi lo rilascio, il volume aumenta di molto. È una lana con una eccezionale resilienza, che permette di ottenere un tessuto corposo ma leggero”. Fra il 2004 e il 2009 il lanificio veneto aveva sponsorizzato anche un concorso, con un premio per la lana italiana più fine; poi il terremoto dell’Aquila ha portato a sospendere il premio in segno di rispetto. Una pecora dà circa 3 chili di lana sporca, dopo pulizia e trattamento ne resta un chilo di buona qualità. Per una giacca servono circa 2 metri di tessuto (650 grammi), vale a dire che il rapporto è una pecora/una giacca e mezza. Ora: non è che di pecore nere vestiremo tutti. Sulle 120 tonnellate che si lavorano qui, il nero-marrone non supera il 10%. Altrettanto di nicchia sono il Milkofil (fibra caseinica derivata dal latte) e l’Algali (ricavata dalle alghe marine), perfino il tessuto con filato ricavato dalle ortiche. Il punto è che qui, con un ciclo completo (52 operazioni svolte in proprio, dall’arrivo delle balle con la lana tosata provenienti da Australia, Sud America, Spagna e Nuova Zelanda e naturalmente Italia) di filatura, tessitura, rifinitura – si produce qualità e innovazione. Che non stride con il tentativo di recupero della pastorizia vecchio stile: “Nel 2006 abbiamo prodotto James, un tessuto capace di schermare il corpo dalle radiazioni elettromagnetiche, abbiamo scommesso sul filone della canapa naturale e la novità della ultima stagione, il Gelsolino: una viscosa (fibra artificiale) prodotta dai rami della pianta di gelso ancora diffusa in Veneto” racconta Bottoli, che con un battito di mani richiama le pecore e allunga loro un po’ di cibo. “La differenza è nella ricerca, nell’innovazione e nell’eccellenza qualitativa che i competitor di altri Paesi, dove il tessuto può essere acquistato magari a prezzi inferiori, ben volentieri lasciano ai lanifici italiani”. Il lanificio veneto ha origini documentate dal 1861, “qui mio nonno era direttore del regio Osservatorio bacologico, innovava il “seme-bachi” per le bacologie italiane, fino a quando irruppero sul mercato della seta Cina e Giappone, che annientarono la produzione italiana”. Ecco perché, generazioni dopo, Bottoli è uno dei più strenui difensori del Made in Italy, con le prime paginate di giornale comprate nel 2004 per avvisare del rischio per migliaia di posti di lavoro nel tessile. Previsione azzeccata: “Perdere un’impresa significa rinunciare a posti di lavoro, competenze, tecnologia: ecco perché alla fine rischia un intero settore. Se non siamo consapevoli di quello che sappiamo fare, e di come lo facciamo solo noi, ancora, al mondo, allora non sapremo far percepire questo valore all’estero.
Ma non possiamo puntare solo sulla qualità: servono metri prodotti e quantitativi per stare a galla, non si vive di sole Ferrari, occorre vendere anche vetture medie per fare i volumi e poter continuare a fare ricerca”. Nella sede degli uffici, dove si alternano gli staff degli stilisti ma non si disdegna interloquire con i pastori abruzzesi, è pronta la collezione dell’inverno 2016: ogni sei mesi vengono messi a punto 3.600 varianti di fantasie per giacche maschili, una nicchia che ha mostrato di avere spazi e prospettive superiori all’abito intero a tinta unita. Ecco perché da qui potrebbe ripartire la battaglia: quella europea, per il marchio “Made in” (e in seguito per il “Made in Italy”), è ancora da vincere; quella per una tracciabilità che permetta a chi compra una giacca in Italia, di firma italiana, di sapere anche da dove arriva la materia prima, è tutta da inventare. E il lanificio di Vittorio Veneto, con le sue greggi sparse per l’Italia, potrebbe esserne il promotore.