Troppo profumato, un odore caratteristico che si sentiva sin fuori dalle osterie. Troppo colorato, impossibile da smacchiare se finiva sulla tovaglia. Un fuorilegge, che non compare nel registro nazionale delle uve coltivabili.
Il vino Clinto è stato vietato fin dagli anni Trenta: era arrivato in Italia quando le viti del vecchio continente erano finite sotto l’attacco della filossera, e si era decisa l’importazione di vitigni americani per la preparazione di ibridi resistenti al parassita: fra loro anche il malfamato Clinton. Con un contenuto di tannini più elevato dei vitigni europei, e una buccia ricca di sostanze che ne sconsigliavano un uso, diciamo, intensivo per il rischio di tossicità, ad un certo punto fu imposta l’estirpazione dei vigneti che superavano, per estensione, una produzione limitata “al consumo familiare”. Un bando legislativo ancora più rigoroso di quello che ha colpito l’uva fragola (la bianca Noah e la nera Isabella) che dal 1996 poteva essere coltivata solo per il consumo diretto, non considerando e quindi dimenticando la destinazione delle uve per la distillazione.
Qualcosa, però, fra le campagne di Padova, Treviso, Vicenza, è rimasto fra i filari. E alcune distillerie acquistavano l’uva di Clinto per farne acquaviti.
Tre di queste, nei giorni scorsi, si sono viste arrivare una sanzione di 200 euro per avere distillato il Clinto: e ora si alleano per chiedere al ministero l’iscrizione del vitigno fra quelli coltivabili ed utilizzabili per la produzione di acquaviti: «Altrimenti sarebbe l’ennesima mortificazione per chi vuole valorizzare il proprio territorio e le proprie tradizioni».
L’ufficio “Repressione e frodi” ha ispezionato e multato – fra gli altri – la distilleria Fratelli Brunello di Montegalda, alla quarta generazione (distillano dal 1840) e con la quinta già in fase di allenamento. Da anni lo “spirito del territorio” – in senso letterale – viene salvaguardato anche cercando fra i patrimoni dei vitigni nazionali e distillandone le uve per salvarle dall’estinzione. Nel caso del Clinto, viene distillato il fermentato di uva (tutto il frutto, non solo la vinaccia) che diventa poi “Met”, nome ispirato alla bevanda della mitologia scandinava: era il nettare magico che dava saggezza divina a chi lo beveva. Pochi, per la verità: a seconda delle annate questa nicchia nella nicchia per degustatori offre dalle 500 alle 900 bottiglie da mezzo litro in vetro soffiato a 43 gradi, millesimate e numerate.
«Dicono che il Clinto non sia all’altezza dei più blasonati vini italiani: siamo d’accordo ma per noi quest’uva è un legame con le buone tradizioni locali da più di 25 anni e vogliamo continuare a produrre questo distillato – spiega Paolo Brunello – Crediamo francamente che i problemi del settore siano ben altri». Nella battaglia per il riconoscimento ci sono anche le distillerie Schiavo di Costabissara, e Capovilla di Rosà, tutte nel Vicentino, tutte sanzionate.
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E a proposito di vini con solide radici in regione: c’è un film prodotto dalla padovana Venice Film, con maestranze locali venete e location che vanno da Venezia a Verona fino alle terre del Raboso del Piave, nel Trevigiano.
Il 29 agosto è stato presentato a Venezia “Il leone di vetro”, un film che «riscopre il passato raccontando le radici di un territorio». Quello veneto, appunto. Le locatin sono San Polo di Piave (TV); Borgo Malanotte – Vazzola (TV); Piombino Dese (PD); Verona; Venezia.
Qui si raccontano le vicende di due famiglie produttrici di vino. Siamo nel 1866, nei giorni che precedono il referendum del 22 ottobre che, di fatto, sancirà l’annessione del Veneto al Regno d’Italia. Attraverso le vicende dei Biasin, che da generazioni producono e commerciano vino in tutta Europa, e dei Querini, aristocratici in decadenza, si raccontano conflitti, rivelazioni e intrecci amorosi.
(Per il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=mMl04hQ8iZU )