Piumini di alta gamma venduti in 250 negozi in Italia, 800 in Giappone, 1.200 nel resto del mondo. Duvetica, base a Mogliano Veneto e 32 milioni di fatturato, ha portato a casa una vittoria che può servire anche a molte altre aziende italiane. Il contenzioso era nato dopo il tentativo di registrazione di un marchio simile – Dovotika – in territorio cinese. Come se ne sono accorti? Grazie ad una “ricerca di sorveglianza”.
«Quando si registra un marchio – spiega Davide Petraz dello studio GLP, sedi a Milano, Udine, Perugia e Zurigo, che ha seguito il caso – ai può limitarsi al deposito oppure monitorare, per aree territoriali o anche ovunque, eventuali tentativi di imitazione o di vendita di falsi su Internet».
La sentenza ottenuta da Duvetica può dare «maggiori certezze al Made in Italy per due motivi», spiega Petraz. Il primo è che rende palese un cambiamento di mentalità: «A mano a mano che le aziende cinesi si strutturano e investono su marchi propri, come nel caso dei primi cellulari diffusi sul mercato, cresce anche la loro esigenza di tutela e protezione. Un fattore che per le realtà italiane può fare la differenza».
Non solo: anche il sistema delle sottoclassi di prodotto, una possibile via di fuga davanti alle contestazioni, è stato superato dalla decisione del Trab (Trademark adjudication and review board) che ha ritenuto i marchi identici, simili e affini nonostante il cavillo. Petraz lo spiega con parole semplici: «In Italia, per fare un esempio, viene depositato un tipo di suola per calzature. In Cina scarpe e ciabatte appartengono a categorie differenti, le cosiddette sottoclassi: in teoria la protezione per una non si estende all’altra classe». I piumini Dovotika erano appunto in una diversa sottoclasse, ma è stata valutata ed ha prevalso la somiglianza dal punto di vista visivo e fonetico dei due marchi: «Il dato considerevole è che non parliamo di un marchio massivo come Coca Cola, ma di nicchia; ebbene, il giudizio ha riguardato la sua scrittura in termini occidentali, e non nell’alfabeto cinese. Non era affatto scontato», sottolinea Petraz.
Quanto tempo ci è voluto per portare a casa questo risultato? Circa un anno e mezzo. Quanto ai costi, «è chiaro che non stiamo parlando di aziende che vendono un migliaio di euro di merce all’anno – osserva Petraz – Ma quando c’è un marchio che produce un reddito e che si sta affermando, allora proteggerlo è un investimento ancora più che una spesa». Un ultimo suggerimento: «La logica deve essere continuativa: inutile mettere l’allarme a casa e poi per dieci anni disinteressarsene, magari senza cambiare le pile. Anche la protezione del marchio va seguita, aggiornata quando serve, per essere efficace».