Quando si scende dal treno a Bolzano, si incontra una lunga serie di chioschi che vendono wurstel e altre specialità tipicamente altoatesine. Il primo chiosco è gestito da Yanghui Chen, un ragazzo cinese in Italia da quando aveva 4 anni e mezzo. La sua è una delle interviste raccolte dal sito Repubblica popolare di Bolzano.
Il progetto, frutto del lavoro di Matteo Maria Moretti (docente di Interactive & Motion Graphics e co fondatore della piattaforma di ricerca di visual journalism alla Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano) e di un team di collaboratori (l’antropologa Sarah Trevisiol, il giornalista Fabio Gobbato, l’ingegnere del software Daniel Graziotin e il graphic designer Gianluca Seta), ha vinto il premio “Data visualization of the year” al Global Editors Network Summit di Barcellona, dove ogni anno si discutono le tendenze e innovazioni nel campo del giornalismo. Quest’anno il tema era proprio “Prototyping the Future of News”
E il futuro del giornalismo passa anche da progetti di approfondimento multimediale come questo. La Repubblica Popolare di Bolzano (qui su Facebook) è un sito web frutto di un lungo lavoro di ricerca svolto per verificare il fondamento delle notizie riguardanti la comunità cinese di Bolzano. Ci sono i numeri, infografiche che dimostrano numeri alla mano che la temuta “invasione cinese” non esiste (633 i residenti cinesi a Bolzano, nel 2014 sono nati 16 bimbi da coppie cinesi, sul totale delle imprese, le aziende cinesi rappresentano l’1,3%), le video-interviste ai nuovi concittadini con gli occhi a mandorla che permettono di conoscere chi sono, cosa hanno vissuto e cosa pensano i rappresentanti locali di una cultura sconosciuta anche se ormai molto vicina. «Più che a un’invasione stiamo assistendo a un’apparente integrazione», spiega Moretti.
Come quella del giovane cuoco del chiosco, che si è presentato ai genitori con tinta e piercing aspettandosi il peggio, e ricavandone una gran risata: «Sono cresciuto in una società occidentale, non possono aspettarsi da me che mi comporti come un cinese in Cina». E poi c’è Xun Ju Wu, un nome difficile che ha trasformato in Massimo: «Sono nato nella provincia dello Zhejiang, la gente letteralmente moriva di fame negli anni Sessanta ed è iniziato un forte fenomeno migratorio. Chi arriva adesso può studiare, io ho imparato l’italiano da solo, senza un minuto di scuola». Prima ha aperto il suo primo ristorante nel 2000, in un paese della Val di Fiemme, a Predazzo. Poi ha lavorato per dieci anni in una ditta di montaggio di serramenti e porte: «Nessuno aveva mai visto un cinese lavorare in un cantiere», racconta. Ora fa di nuovo il ristoratore.
Ha studiato invece, eccome, Yingjun Chen, in Italia da sette anni: adesso frequenta l’università a Trento, quando due anni fa ha preso 100 alla maturità nessuno ci poteva credere: «Credo dipenda dal modo di insegnare in Cina, dove la scuola è molto severa». Se riuscirà a trovare un bel lavoro in Italia, ci rimarrà, «però, visto che l’economia cinese si sta sviluppando tantissimo, non escluderei di tornarci».
Romina Chang, nata a Roma, ha nome italiano: «Fino ai 18 anni avevo anche un nome cinese, Yuen. Mi sentivo diversa, ma ho sempre vissuto in Italia, ho fatto le scuole italiane e quindi non avevo mai pensato si non essere cittadina italiana. Solo alle superiori ho scoperto di essere cittadina cinese». Romina racconta come le persone cresciute all’estero vengano definite dai cinesi “banane”: «Perché all’esterno siamo come i cinesi, gialli, mentre all’interno come gli occidentali, bianchi. Ma tutte le persone che cambiano Paese ne restano influenzate, anche i miei genitori».
Imperdibile è la sezione “Cosa non hai mai osato chiedere a un cinese”: è vero che pagate sempre in contanti e non morite mai? Alle domande – tutti i luoghi comuni, a ruota libera, senza tabù – rispondono i cinesi di Bolzano, fra sonore risate e qualche riflessione: «Quando si invecchia e si sente che la fine si avvicina, molti tornano nella loro terra per morire lì. In fondo la foglia si stacca dall’albero per cadere sul suo terreno», dice Honglin Yang, da 20 anni a Bolzano (il suo ristorante in piazza Mazzini era l’unico cinese in tutta Bolzano negli anni Novanta).
Il sito ha anche la mappa interattiva, dove si vede che non esiste un quartiere cinese, ma le attività, e quindi anche le abitazioni, sono distribuite su tutta la città. Allora perché è diffusa la sensazione di un’invasione cinese tra la popolazione? «Una possibile risposta è che il settore prevalente in cui opera il business cinese è la conduzione di esercizi a stretto contatto con il pubblico. Questo comporta che siano molto più visibili rispetto ad altre comunità. In tempi in cui le news sono scritte principalmente per intrattenere e non per informare, diventa sempre più importante riportare i lettori a una informazione bilanciata», spiega Moretti.