«Per vendere in Russia serve una valigia di documenti alta così»: l’imprenditore con i capelli bianchi in seconda fila annuisce vigorosamente. «Se vuoi fare affari in Cina, scordati di gesticolare come sei abituato a fare qui»: questa volta i cenni di assenso arrivano dal fondo della sala. «E se sei in Arabia Saudita, non mostrare mai la suola delle scarpe».
Padova: nella sala di un hotel una quarantina di piccoli imprenditori assistono a un incontro che punta a fornire le basi dell’export. Rappresentano i settori più diversi: arredamento, produzione di biciclette, trattamento di rifiuti. La serata è organizzato Veneto Banca, con i consulenti di KW Forester Alessandro Maggio e Federica Piran.
I dati dicono che, in un mercato italiano stagnante da anni, solo le imprese che hanno saputo guardare all’estero si sono garantite la sopravvivenza, e in qualche caso anche la crescita.
Un processo che può limitarsi alla fase uno (internazionalizzazione commerciale, cioè vendere all’estero) o arrivare alla 4 (joint venture o delocalizzazione), passando per fasi intermedie che riguardano l’approvvigionamento in altri Paesi di materie prime o componenti, o lo svolgimento di attività di ricerca e sviluppo in aree dove le condizioni sono più favorevoli.
In ogni caso, la prima cosa da sapere sono gli errori da non commettere. Perché molte volte – spiegano gli esperti -, presi dall’entusiasmo dei primi contatti con potenziali clienti esteri, si tralasciano tutti quegli aspetti che possono diventare cruciali nella buona riuscita dell’affare: aspetti legali, aspetti legati ai trasporti, ai pagamenti, alle diversità di usi e costumi di ogni singolo Paese.
Ecco una prima guida agli errori in cui non cadere.
1 – Considerare internazionalizzazione come una attività episodica e residuale della vita dell’impresa.
«Per portare a casa una commessa servono mesi, anche un anno – spiega Federica Piran – Non ha senso affrontare questo genere di impegno se si pensa a un risultato immediato per rimediare a un calo di ordini in casa, oppure per procurarsi una fattura estero da portare a scontare in banca per avere liquidità come tanvolta abbiamo visto accadere».
2 – Affrontare l’internazionalizzazione per “tentativi” o per “imitazione”.
«Il mio concorrente vende in Vietnam, dunque posso farlo anche io. Non c’è ragionamento più sbagliato: voi non sapere come è arrivato fin lì, come si è organizzato, che strategie ha. Non c’è nulla da copiare. Occorre dimenticare la strategia del giocatore d’azzardo che prova a giocare tutte le mani della partita non avendo carte buone da spendersi».
3 – Considerare l’internazionalizzazione come strumento per superare problemi mercato domestico.
«Questo perché non è detto che il prodotto, conosciuto ed apprezzato dal mercato italiano, abbia subito la stessa fortuna all’estero, e non è detto che si possa vendere così come lo si vende in Italia: molti paesi hanno le loro normative – di sicurezza e non – alle quali il prodotto dovrà essere adattato per poter essere esportato», sottolinea Federica Piran.
4 – Approcciare i mercati esteri con le stesse strategie adottate sul mercato domestico.
«Da aziende produttrici bisogna fare un salto di qualità e diventare aziende commerciali: finora i clienti vi arrivavano sotto casa – annuisce un invitato che lavora con l’estero nel settore vivai – adesso bisogna andarli a cercare e selezionare. Ma mentre i clienti italiani si conoscono, si conoscono le loro esigenze, di quelli esteri non si sa (ancora) nulla».
5 – Decidere senza avere una strategia e una pianificazione.
«La decisione strategica di avviare un percorso export è un impegno da cui difficilmente ci si può tirare indietro anche in assenza di risultati immediati e significativi. Si buttano solo via tempo, soldi ed energie: bisogna pianificare ogni passo, valutarne rischi e vantaggi».
6 – Accettare a priori che i risultati si conseguono progressivamente con un piano a medio-lungo termine.
«A volte le prime vendite si raggiungono dopo un anno dal primo contatto. Bisogna saper aspettare e lavorare costantemente e con impegno e sapersi continuamente promuovere», conclude.