Se l’azienda dei detersivi disdetta l’accordo firmato 25 anni fa per tutelare il lavoro femminile (e oggi è cambiato tutto)

Premessa: in alcune tipologie di aziende si lavora, a turni, anche di notte, perché il prodotto o il tipo di ciclo lo richiedono. Nulla di strano. Alla Reckitt Benckiser di Mira, provincia di Venezia – il paese che aveva dato il nome alla storica Mira Lanza, poi passata di mano: negli anni Sessanta le campagne pubblicitarie con Calimero e l’Olandesina l’avevano resa nota a tutti – nel 1989 era stata firmata una intesa che regolava uno schema di turno in orario “3×5”, con lo spezzettamento del turno notturno il mercoledì notte e la ripartenza il giovedì mattina alle 6 e recupero del notturno il sabato successivo. In sostanza, il dipendente faceva due o tre notti al lavoro su cinque; una soluzione che aveva permesso all’azienda di poter usufruire del turno notturno da parte del personale femminile, che a quel tempo era la maggioranza della forza lavoro presente in stabilimento (oggi le donne sono meno di cinque).

calimero

«La comunicazione è arrivata per raccomandata» racconta Massimo Meneghetti, segretario della Femca Cisl provinciale, il primo a sostenere che non è una questione di orari: «La richiesta dell’azienda è di un orario settimanale composto da cinque giorni in turno 06/14, cinque in turno 14/22 e cinque in turno 22/06. La motivazione sarebbe l’esigenza di eliminare l’inefficienza dell’attuale orario, così da poter avere un risparmio economico che si aggira su 47mila euro annui. Una scelta che a nostro avviso potrebbe comportare rischi altissimi per la salute dei lavoratori con un appesantimento dei carichi di lavoro».

In sostanza, un conto è lavorare tre notti su cinque, un altro è tutte le cinque notti. «Il sindacato non ha mai disdetto un accordo, nemmeno quando potevano esserci delle valide ragioni per farlo. Con responsabilità abbiamo lavorato nella ricerca di accordi innovativi e funzionali alla competitività, che significa crescita, occupazione e benessere. E ora siamo disponibili a vagliare tutte le strade utili per ridurre gli sprechi e alternative all’intervento sugli orari di lavoro, certi che potremmo ottenere risparmi di gran lunga superiori ai 47mila euro».

Il caso Mira rischia di avere ricadute che vanno ben oltre la provincia veneziana: «Il fatto più grave è che unilateralmente l’azienda ha proceduto a disdire un intesa sindacale, soluzione inconcepibile e che rischia di compromettere seriamente le relazioni sindacali instaurate non solo in questo stabilimento, con forti ripercussioni anche a livello nazionale». Da qui, andando oltre le parole,  potrebbe iniziare la corsa alla disdetta degli accordi, questa volta da parte dei lavoratori.

Reckitt Benckiser, la vertenza aperta nel 2012

Reckitt Benckiser, la vertenza aperta nel 2012

La fabbrica di Mira oggi produce detersivi liquidi e in tavolette. Fra ristrutturazioni e riorganizzazioni, si è passati da circa 800 unità lavorative presenti nel 2000, alle attuali 290 unità suddivise tra operai e impiegati. Nel 2013, con l’ultima riorganizzazione del sito, si è concordato la chiusura del reparto produzione polveri (con lo spostamento delle quantità produttive in Spagna in un’altro sito del gruppo); l’accordo ha comportato l’esubero incentivato di 81 unità diventate poi 90, con il potenziamento dei reparti dei liquidi, tabs e il superamento delle fermate per pausa mensa, l’aumento dei carichi di lavoro e di responsabilità anche in termini di qualità. La contropartita annunciata era stata rendere sempre più competitivo il sito di Mira per attrarre investimenti, nuovi progetti, produzioni e ulteriori volumi e dare una prospettiva di lungo termine all’azienda.

  • mctarabini |

    Non vi vedo nulla di strano. In italia produrre costa troppo. Così le imprese devo perseguire un efficienza a volte malsana. L’alternativa? Chiudere o delocalizzare. Non si può tassare le aziende oltre misura e tartassarle di burocrazia, aspettandosi poi che questa producano occupazione – magari pure ‘buona’.

  • mctarabini |

    Non vi vedo nulla di strano. In italia produrre costa troppo. Così le imprese devo perseguire un efficienza a volte malsana. L’alternativa? Chiudere o delocalizzare. Non si può tassare le aziende oltre misura e tartassarle di burocrazia, aspettandosi poi che questa producano occupazione – magari pure ‘buona’.

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