Ottanta aziende, per la gran parte piccole. Se non riprenderanno i lavori avviati in Libia, verranno sostituite da imprese straniere (che non aspettano altro, fa notare un imprenditore). Ma non possono far ripartire i cantieri perché non hanno la liquidità sufficiente: i crediti maturati nel Paese africano non sono mai stati liquidati, nè è arrivata ancora alcuna risposta alla richiesta di sospendere le imposte in Italia: «Le due condizioni necessarie a tacitare le banche, liquidare i creditori italiani e stranieri, riprendere l’attività e superare, forse, la crisi».
Gianni De Cecco, titolare della Friulana Bitumi International Srl, ha un ramo d’azienda in Libia dal 2008: ha ideato e parzialmente realizzato la prima città concepita con criteri di sostenibilità, Sidi Al Hamri, sulle montagne della Cirenaica, per 72mila abitanti. Nella progettazione, che ha raggiunto il 50% del totale, è stato coinvolto anche uno studio di Udine. Il lavoro era in joint venture con la società statale che gestiva i fondi per la realizzazione di edifici e infrastrutture. In Italia, la società è scesa da oltre 50 a una decina di addetti; cercare lavoro all’estero era sembrata l’unica strada possibile. «Qualcuno si chiederà perché non ci siamo assicurati con la Sace: solo in due lo hanno fatto, forse perché esisteva, ed esiste, il Trattato di amicizia che avrebbe dovuto tutelarci».
TRE ANNI DOPO – La prima riunione delle aziende coinvolte, a Roma, è del 23 marzo 2011. Da lì si sono susseguite risoluzioni sui problemi delle aziende nei Paesi del Mediterraneo, proposte di legge per il sostegno a imprese e società coinvolte nelle crisi politiche di Libia, Tunisia ed Egitto, ordini del giorno, interrogazioni al Consiglio europeo: in queste ultime – una anche a firma Debora Serracchiani, attuale presidente del Friuli Venezia Giulia – si chiedeva se i fondi congelati alla Libia potessero essere utilizzati per liquidare i crediti maturati da aziende italiane prima della crisi. La risposta è stata positiva, anche per la possibilità di differire il pagamento dei tributi sui crediti iscritti a bilancio. Che cosa è accaduto da allora? Nulla. Il 2013 è passato senza una convocazione, senza alcuna informazione sui tempi, e le possibilità, di pagamento.
UN ANNO DI SILENZIO – Le società coinvolte, ottanta, avanzano 250 milioni di euro, con i crediti pregressi si arriva a 600. Nei documenti emerge un notevole dispiego di forze e interessamento delle diverse parti politiche, interpellanze parlamentari urgenti, ampie dichiarazioni di sostegno. A febbraio 2012 è arrivata la conferma che i fondi libici congelati sono stati sbloccati a seguito della fine del conflitto. Al governo Monti è succeduto Letta: alcuni di quei politici che avevano seguito la questione non siedono nemmeno più in Parlamento, le aziende hanno perso i punti di riferimento.
Dove si perde ogni iniziativa? Risposte non sono arrivate dal ministero dello Sviluppo economico nè dal ministero degli Esteri.
DUE DOMANDE – «Perché non usano i fondi del Trattato di amicizia per liquidarci? Perché a oggi il ministero non ha certificato o riconosciuto i crediti maturati e i danni subiti? Molte imprese sono fallite, altre sono in procinto di farlo. La disperazione deve arrivare a gesti eclatanti perché qualcuno risponda? Ora la Libia ci chiede di riprendere i lavori. Saremo costretti a lasciare a casa i nostri collaboratori, e abbandonare le posizioni raggiunte con grandi sacrifici alle aziende straniere». De Cecco parla dall’aeroporto, è appena rientrato in Italia: si trovava ad Al Bayda, a 30 chilometri da Derna, dove nei giorni scorsi due operai calabresi sono scomparsi e dove si reca più volte al mese: «Ho sentito in televisione dire che si sa, che quella è una zona ad alto rischio. Come se non lo sapessimo noi tutti, come se venissimo qui per divertirci. Come faremmo a sperare di recuperare i nostri crediti senza venire in Libia, visto che siamo lasciati soli?».