«Oggi sono tre anni che siamo scappati da Al Bayda. Era un venerdì, una giornata di sole, ma faceva freddo. Era giorno di festa, la loro domenica, e dopo due giorni di combattimenti era tutto tranquillo: era una atmosfera surreale. Ricordo che parlando con mio figlio ci siamo chiesti se era meglio partire o rimanere. In tarda mattinata è venuto a farci visita un dipendente, Nor, e ci ha informato che i ribelli avevano bruciato l’aeroporto di Al Bayda dove atterravano le truppe inviate da Tripoli.
Ricordo di aver riunito gli italiani e tutti hanno espresso il desiderio di partire per Tripoli. Infatti i disordini erano scoppiati solo a Benghazi ed Al Bayda. Mai avrei immaginato che a tre anni di distanza saremmo stati nella situazione di stallo in cui viviamo».
Questa lettera arriva da un imprenditore del Nordest, uno di quelli che, dopo un’iniziale resistenza alla crisi italiana, e visto che la situazione non accennava a migliorare, ha cercato lavoro e commesse all’estero. E le ha trovate, in Libia. Imprenditori che si erano sentiti tutelati dal trattato di amicizia italo libico, e che invece si sono trovati soli. Lo sono tuttora.
«La scorsa settimana ero a Tripoli, come al solito per cercare di farmi pagare i crediti maturati prima della rivoluzione. Alla HIB (Housing and infrastructure board) mi hanno chiesto di proseguire la progettazione della nuova città di Sidi Al Hamri che consentirebbe di dare lavoro alle nostre maestranze che sono in cassa integrazione.
Mi chiedo perché le istituzioni italiane (ministero dello Sviluppo economico e degli affari esteri) non abbiano ancora certificato i crediti, considerato che la documentazione li è stata inoltrata, su loro richiesta, nel febbraio 2012: due anni fa. Il pagamento anche parziale di quanto ci devono ci consentirebbe di riprendere l’attività in Libia e di dare lavoro a molti collaboratori italiani».
È questo il primo argomento che si ripete per la terza, su questo blog. L’aspetto inquietante è che ogni volta si trova qualcuno disposto a occuparsi di questa vicenda: una recente rassegna di appelli, interrogazioni parlamentari e richieste di intervento è qui: http://barbaraganz.blog.ilsole24ore.com/2014/01/la-solitudine-delle-imprese-italiane-allestero-.html
Ultima in ordine di tempo, la mozione presentata da Walter Rizzetto (Movimento 5 Stelle) alla Camera a inizio febbraio: «Si ritiene inaccettabile che i Governi che si sono succeduti, nonostante gli impegni assunti, non si siano adoperati concretamente per sostenere le imprese creditrici, che non solo non hanno ottenuto la soddisfazione delle legittime pretese creditorie, ma neanche delle agevolazioni efficaci, tali da consentire alle stesse di potere resistere alle gravi difficoltà economiche sino alla riscossione delle somme dovute».
La Camera di commercio italo libica fa sapere che «in questi anni alcune aziende, tanto al nord quanto al sud, non hanno retto a questa criticità e non avendo avuto né aiuti e né speranze hanno dovuto arrendersi. Mentre è comprensibile il disagio relativo ai crediti successivi alla rivoluzione del febbraio 2011, è sconcertante l’inerzia della politica italiana nella gestione di quelli relativi agli anni 90; i vari governi che si sono succeduti nel tempo hanno sempre evitato di proteggere le imprese coinvolte, con l’eccezione delle "aziende" di Stato. Comunque la trattativa per i crediti trentennali era stata ripresa nel 2012, arrivando a un accordo accettabile, dove è stato decisivo il ruolo tecnico svolto dalla Banca Ubae, ma il tavolo si è volatilizzato e la trattativa si è nuovamente arenata sempre a causa della continua mutevolezza degli interlocutori libici.
La questione più impellente e seria riguarda i crediti recenti; sono circa 130 le imprese coinvolte con un importo tra i 500 e i 650 milioni di euro.
Considerata l’inagibilità attuale del tavolo con i libici, per una costante – anche se comprensibile – instabilità degli interlocutori, è necessario che il Governo italiano trovi, provvisoriamente, un’opportuna forma di aiuto per allentare la tensione finanziaria sulle imprese.
Le aziende non chiedono il saldo delle fatture – in gran parte certificate – ma forme di alleggerimento temporaneo fiscale, contributivo e la creazione di un fondo di garanzia a tassi agevolati per superare la difficoltà "momentanea".
Oltre alla beffa economica (e alla disperazione che ne consegue), è in gioco «la perdita di un patrimonio di relazioni, di esperienze, di professionalità, che ha richiesto ingenti investimenti in risorse umane, economiche e temporali» spiega Gianfranco Damiano, presidente della Camera italo libica. «In tal modo si penalizza la presenza delle nostre aziende in Libia e ciò comporta un arretramento con un aumento del rischio di un’espulsione delle imprese. Si consideri la costante aggressività delle aziende di altri Paesi come Turchia, Spagna, Francia, Cina, USA, che si muovono più agevolmente grazie ad una reale sinergia e a una costante "protezione" da parte dei rispettivi organismi governativi di appartenenza».
Se il messaggio non fosse abbastanza chiaro, ecco il seguito: «Il nostro Paese è imprenditorialmente presente, ma solo grazie alle capacità di singoli, dotati di una volontà incommensurabile, coscienti della crisi che avvolge il nostro Paese e della necessità di ricercare nuovi mercati; costoro sono anche consci dell’inconsistente se non sconosciuta presenza del sempre troppo citato "Sistema Paese". La partita dei crediti, per ora, si gioca in Italia e richiede una vera sinergia tra il ministero degli Affari esteri, dello Sviluppo economico e delle Finanze; nel 2012 si era avviato un dialogo tra questi ministeri e le imprese rappresentate da Confindustria e dalla Camera di commercio italolibica ma tutto è scivolato, da più di un anno, in un assordante silenzio».
Intanto cinque imprese sono già crollate, altre soffrono e con esse circa 1.500 addetti. «La Libia, se le cose continuano così, rischia di diventare, per noi uno scatolone di sabbia e per gli altri una magnifica opportunità», conclude Damiano.