L’azienda trevigiana cucita intorno alle persone (dove piovono curriculum)

Ogni volta che si parla di lei, piovono curriculum: è l’effetto che fa l’azienda trevigiana che cambia le regole della conciliazione vita lavoro e che stravolge le regole – da ben prima che la pandemia accelerasse questi processi. Una azienda con un volto di donna.

Virginia Scirè, oggi 44 anni, una laurea in Economia e, in principio, un lavoro in una società finanziaria: «Il classico dalle 9 alle 18, ma anche fino alle 20. Nel 2008 però è nato Matteo, e a me è stato prospettato un trasferimento di sede incompatibile: ho detto no». Ma non è il tipo da lasciare la laurea, e le ambizioni, nel cassetto: «Quando il piccolo aveva sette mesi ho sentito l’esigenza di ricollocarmi nel mondo del lavoro. Ho iniziato a occuparmi di vendite online aprendo un negozio su eBay, poi un mio sito di ecommerce di abbigliamento per bambini».

La strada

Le cose girano, nel 2010 assume la prima dipendente, nel 2013 diventa di nuovo mamma. «Grazie a una amica parlavamo di chi ha bambini che hanno bisogno continuamente del contatto, e che vogliono stare solo in braccio, ma c’è anche il bisogno di riprendersi tempo per se stesse, anche solo farsi un caffè: provateci con un braccio solo a disposizione…». Virginia è pratica, trova i contatti, avvia una community su Facebook nella quale le donne si scambiano esperienze e imparano a conoscere il baby wearing, una pratica che consente di portare il bambino “addosso”, liberando le mani.

I primi modelli venivano importati, ma presto nascono progetti fatti in proprio e venduti con la logica del pre ordine: «Una grande fatica, abbastanza da chiedersi dopo un paio di anni: ha senso correre sempre per presentare un catalogo ogni sei mesi?». L’attività di abbigliamento per bambini viene ceduta, ma l’esperienza maturata porta Virginia a credere in un nuovo progetto: una linea di capi per portare il bambino addosso, adatta a diverse stagioni, riutilizzabile.

Il nodo del credito

Nemmeno questa è stata una strada in discesa: «Ho disegnato i capi io stessa, sono arrivata a un prototipo, l’ho proposta ma nessuna azienda ha voluto metterla in produzione. Allora ho cercato da me chi potesse realizzarla: hanno voluto essere pagati in anticipo, dicevano “non crediamo in quello che fai”. Io non demordo». Il primo finanziamento – dopo il no della banca – arriva grazie al crowdfunding, una raccolta fondi online promossa nella community con la quale molte persone hanno visto e apprezzato l’idea, hanno prenotato e pagato i primi 100 pezzi consentendone la produzione: era nata Wear Me, che dal 2018 è startup innovativa con tanto di domanda di brevetto depositata.

Nella nuova azienda Virginia vuole con sé alcune collaboratrici che già conosce, ma una di loro ha tre figli, come permetterle di conciliare davvero il lavoro, eventuali malattie dei piccoli e orari? «La mia stessa sensazione era di non essere bene né mamma, né imprenditrice, senza sfuggire al quel giro infernale di continui incastri fra nonni, baby sitter, prendo, lascia, ritorna. Non voglio più questa vita, mi sono detta, ma non la voglio nemmeno per chi lavora con me».

L’innovazione

La prima decisione è stata chiudere alle 16: «In Germania avevo fornitori che ci riuscivano eccome: bastava dare il tempo agli altri di abituarsi ai nostri orari. Un giorno trovi chiuso, quello dopo lo sai e ti organizzi. Vale online, ma anche nel nostro negozio fisico, a Castelfranco Veneto». Secondo passo: dare vita al lavoro da casa quando nemmeno esisteva. «Certo, chi impacchetta o spedisce ha turni in presenza: gli altri a casa, come Tania, che nel frattempo era rientrata dalla maternità. Voleva rientrare al lavoro, ma chi la avrebbe aiutata? Si è gestita lei un orario di 4 ore al giorno».

Nel frattempo Wear Me è cresciuta: il primo anno, 2019, ha fatturato 200mila euro, il secondo raddoppia, il 2021 ha chiuso a 600mila e quest’anno supererà il milione, mentre a febbraio è arrivato un round di investimento e l’incubazione da socialfare di Torino come startup con impatto sociale. Oggi ci sono quattro dipendenti, cui presto si aggiungerà la quinta: un team interamente al femminile e interamente organizzato in smart working. «E quando è arrivato il Covid, ci ha trovato già pronte. Zone rosse, didattica a distanza, nessun problema. La formula? «Credo in una azienda costruita intorno alle persone, e intorno alle loro esigenze di vita. Non solo per le donne: assumessi un maschio, troverebbe le stesse condizioni, è chiaro».

Virginia ha iniziato a raccontare la propria storia qualche mese fa, sollevando grande clamore: in pochi giorni ha ricevuto 700 curriculum « e ho risposto a tutti: di più, ho raccolto tutte queste lettere e voci di persone con grande volontà di lavorare ma inascoltate nei loro bisogni profondi e le ho messe a disposizione di alcuni parlamentari».

Made in Italy

Oggi Wear Me cresce e vuole confermarsi sostenibile «nel senso più ampio possibile: distribuiamo i migliori marsupi e produciamo fasce portabebè, giacche e cappotti da usare prima e dopo la gravidanza. Crediamo nel Made in Italy, lavoriamo con artigiani locali, scegliamo tessuti naturali, aboliamo gli imballi in plastica. Ma se non si parte dalle persone, nulla ha senso. Oggi abbiamo tre rivenditori all’estero: Svizzera, Olanda e Francia, ma riceviamo ordini anche dal Nord America. E coltiviamo relazioni: su Instagram ci seguono oltre 37mila persone, oltre 17mila su Facebook, 12mila ricevono la nostra newsletter». Di fatto è l’unico brand italiano a occuparsi di giacche e cappotti per il babywearing, e senza smettere mai di cambiare le regole del gioco: il cappotto disegnato per tenere abbracciato a sé il bebè, ovviamente, c’è anche nel modello maschile».