La risposta alla domanda: “Quanto pesa un giorno lavorativo in più sul calcolo del Pil?” (non è così semplice)

Gli ultimi dati Istat sul Pil (qui l’articolo di Andrea Gagliardi) si riporta che nel 2016 il Prodotto interno lordo italiano è aumentato in termini grezzi dello 0,9% rispetto al 2015; la stessa Istat precisa che il dato corretto per gli effetti di calendario segna invece un aumento dell’1% (nel 2016 vi sono state due giornate lavorative in meno rispetto al 2015).

Qualcuno si è stupito, qualcuno ha dubitato, qualcun altro ha ricordato una vecchia proposta di abolire alcune festività proprio per  contrastare la crisi aumentando il numero di giorni lavorati (ma sempre con qualche incertezza sugli effetti).

Quanto pesa dunque un giorno lavorativo in più?

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Il punto è che i dati e gli indicatori congiunturali, per essere analizztai correttamente anche da Paese a Paese, devono essere facilmente interpretabili e comparabili. Qunmdi, depurati da fluttuazioni stagionali e dall’effetto di un diverso numero di giorni lavorativi nel periodo di riferimento (il trimestre, ad esempio; ci possono essere festività “mobili” come la Pasqua che non cade un giorno fisso di un mese).

Come funziona in concreto lo spiega la stessa Istat, che cita gli strumenti utilizzati e il metodo: “La procedura di correzione degli aggregati dei conti nazionali per gli effetti di calendario è basata sul metodo della regressione e tiene conto del diverso numero dei giorni lavorativi, delle festività pasquali e dell’anno bisestile. Per la destagionalizzazione e la correzione per gli effetti di calendario è utilizzata la procedura statistica Tramo-Seats (per saperne di più guardate qui, ndr). Essa viene applicata alle componenti del Pil (risultando di dimensione diversa a livello di settori di attività economica) e il risultato finale relativo a tale aggregato deriva da una complessa combinazione di fattori“.

Immagine via Pixabay

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In passato per calcolare la produzione industriale si faceva riferimento a una “produzione media giornaliera”, e poi si destagionalizzatav; oggi la correzione non segue più un metodo proporzionale, ma una stima dell’influenza che il numero di giorni lavorativi può avere effettivamente avuto sul livello di produzione.

In sostanza, proprio “per questo, l’effetto della correzione non è strettamente proporzionale al numero di giorni e non può essere determinato con esattezza a priori. Nel 2016, dopo la diffusione dei dati a inizio marzo, l’Istat precisò che una differenza di 3 giorni lavorativi (in meno rispetto all’anno precedente) aveva dato luogo al seguente confronto: una variazione annua sui dati destagionalizzati di +0,642% e una variazione su dati grezzi a +0,759% (attenzione: tali dati
sono poi stati rivisti in settembre). Si confermava che l’effetto di un giorno lavorativo era dell’ordine di meno di mezzo decimo di punto percentuale“.

Dunque, nel 2015, si erano contate tre giornate in più rispetto al 2014, con una variazione del Pil grezzo che è risultato maggiore di quello corretto; nel 2016 invece due giornate in meno, quindi un Pil grezzo inferiore a quello corretto. Quest’anno, spiega Istat, “rispetto al 2015, si può anticipare che l’effetto (di segno opposto) avrà dimensione inferiore a quello misurato sul 2015, ma comunque vicino a un decimo di punto percentuale: i dati riportati sul comunicato diffuso pochi giorni fa lo confermano, indicando che a un incremento dell’1,0% calcolato sui dati destagionalizzati (e quindi corretti per gli effetti di calendario) corrisponde un aumento dello 0,9% calcolato sui dati grezzi”, fa sapere l’Istat.

“Nel 2016 il Pil corretto per gli effetti di calendario è aumentato dell’1,0%. La variazione annua del Pil stimata sui dati trimestrali grezzi è invece pari a +0,9% (nel 2016 vi sono state due giornate lavorative in meno rispetto al 2015). Si sottolinea che i risultati dei conti nazionali annuali per il 2016 saranno diffusi il prossimo 1° marzo, mentre quelli trimestrali coerenti con i nuovi dati annuali verranno comunicati il 3 marzo”.